LA VERITÀ DEL 12 DICEMBRE
Di Domenico Gallo. La verità del dodici dicembre / l’han scritta sopra i muri i proletari/ gli anarchici non c’entrano per niente/ Valpreda sta in carcere innocente/, così la canzone del cantastorie Franco Trincale già nel 1972 metteva il dito nell’occhio alla narrazione ufficiale della responsabilità per la strage.
Sono passati cinquant’anni da quel tragico 12 dicembre 1969 quando alle 16:37 esplose una bomba nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, causando 17 morti e dando inizio a quella triste stagione di stragi ed attentati che avrebbe funestato l’Italia per quasi un ventennio, denominata strategia della tensione. Dopo cinquant’anni ed una infinità di processi, conclusi con una sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005, anche dal punto di vista giudiziario è stata confermata la verità dei fatti rivendicata nella canzone di Trincale. La Cassazione, infatti, confermando l’assoluzione degli ultimi tre imputati per insufficienza di prove, ha tuttavia accertato che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Per capire il senso di questi accadimenti bisogna volgere lo sguardo al clima politico-sociale in cui era immerso il nostro Paese in quell’epoca. Nel 1969 l’Italia attraversava una stagione di grandi fermenti: diversi movimenti sociali, studenti, operai, movimento delle donne si incrociavano fra loro avanzando una domanda di rinnovamento politico, economico e di costume; un ordine politico asfittico, irrigidito dai vincoli della guerra fredda, avaro nel realizzare le promesse che la Costituzione aveva affidato alle istituzioni repubblicane, stava tramontando. Una grande speranza di cambiamento alimentava la partecipazione dei giovani alla vita pubblica, che si realizzava attraverso iniziative di base, come l’occupazione delle scuole e delle Università, l’emergere di episodi di lotta sociale spontanea e una rinnovata vitalità delle lotte sindacali. Non a caso l’autunno del 1969 fu definito “l’autunno caldo”. Per contrastare questa domanda di cambiamento, cosa ci poteva essere di meglio per il potere occulto che non organizzare una serie di stragi (lo stesso giorno di piazza Fontana ci furono fra Roma e Milano cinque attentati), facendone ricadere la colpa sulle frange estreme del movimento di contestazione? Sarebbe stato un ottimo pretesto per sospendere le garanzie della Costituzione e scatenare una dura repressione contro i movimenti sociali. Astrattamente esisteva la possibilità di proclamare quello stato di emergenza previsto dal Testo unico di pubblica sicurezza, che consente ai prefetti di «ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona qualora ciò si ritenga necessario per ristabilire o conservare l’ordine pubblico» (art. 215). Ciò non accadde perché l’allora presidente del Consiglio Mariano Rumor, contrariamente a quanto i neofascisti e i loro alleati si attendevano, non proclamò lo “stato d’emergenza”, atto essenziale per l’instaurazione di un regime autoritario. E per questo fu punito. Il 17 maggio 1973 quando si recò nella Questura di Milano per l’inaugurazione di un busto in onore del commissario Calabresi, Gianfranco Bertoli, un sedicente anarchico, uomo dei servizi segreti, gettò una bomba a mano dinanzi all’ingresso della Questura. Rumor ne uscì indenne ma morirono 4 persone e rimasero ferite 45. Ad evitare che la situazione precipitasse, contribuì l’azione indipendente della magistratura. Il 3 marzo del 1972 vennero arrestati a Treviso i neonazisti del movimento Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura, facendo naufragare la pista anarchica. I magistrati avevano scoperchiato un verminaio dal quale emersero stretti rapporti fra uomini dei servizi segreti e organizzazioni terroristiche di estrema destra. Una visione globale di questi fenomeni si trova nelle pagine conclusive della sentenza ordinanza 18 marzo 1995 del giudice istruttore di Milano, dr. Guido Salvini, in cui si legge che: “la presenza di settori degli apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata “deviazione”, ma normale esercizio, per un lungo periodo, di una funzione istituzionale (..) eventi tutti che non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con ogni probabilità il mantenimento del nostro paese nel campo dell’Alleanza atlantica.”
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